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Sedici anni fa la strage di Capaci: ricordando Giovanni Falcone

Ultimo Aggiornamento: 23/05/2008 23:43
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Oggi è il 23 Maggio. Può sembrare un giorno come gli altri, ma invece ricorre l’anniversario di uno dei giorni più neri della Repubblica Italiana. 16 anni fa alle 17.58, sull’autostrada A29 nei pressi di Capaci, veniva assassinato il Giudice Giovanni Falcone insieme alla moglie e agli agenti della scorta. Quello che ufficialmente sappiamo oggi di quel tragico giorno è che il boss di Cosa Nostra Totò Riina incaricò Giovanni Brusca di premere un detonatore collegato ad una quantità di tritolo tale da creare una voragine sull’autostrada.

Ma chi era Giovanni Falcone? Non è forse questa la sede giusta per raccontare tutta la sua storia, del pool antimafia, del maxiprocesso di Palermo, per le quali sono stati girati film, fiction e scritti decine di libri. Ma vale la pena ricordare il clima politico che ruotava attorno al Magistrato siciliano (e la “M” maiuscola non è un errore di battitura).

Torniamo per un attimo al 1987, al 16 Novembre per l’esattezza. In quel giorno si concluse il maxiprocesso che portò a 360 condanne per un totale che superava i 2600 anni di carcere. La battaglia contro la mafia sembrava definitivamente vinta e la vittoria portava le firme dei Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma qui entrò in gioco la politica e non solo. Già, perchè la prima stranezza arrivò dal Consiglio Superiore della Magistratura che non nominò Falcone come successore di Rocco Chinniti (che lasciava per motivi di salute) all’Ufficio Istruzione di Palermo. Gli fu preferito tal Antonino Meli che stravolse il metodo di lavoro intrapreso da Falcone e dal pool.

Il pool iniziò a perdere pezzi uno dopo l’altro e venne definitivamente sciolto da Meli nel 1989. Da lì in avanti Falcone vide sgretolarsi sotto i suoi occhi il lavoro di un decennio. Un giudice noto come l’ammazza-sentenze ribaltò diverse condanne e dopo il secondo grado di giudizio solo 60 condannati continuarono a rimanere dietro le sbarre. Lo Stato stava lasciando da soli Falcone e Borsellino.

Questo tema è affrontato in maniera eccellente dal film-documentario di Marco Turco, In un altro paese. Chissà, forse il regista ha scelto questo titolo perchè voleva immaginare cosa sarebbe successo in un altro paese dopo il maxiprocesso. Un paese in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono messi in condizione di portare a termine il lavoro, di estirpare il cancro mafioso, di giungere all’anello di congiunzione tra Cosa Nostra e lo Stato. Un paese dove chissà, prima o poi, sarebbero stati un giorno nominati Ministro di Grazia e Giustizia e Presidente del CSM.

Niente di tutto questo. Nel nostro Paese successe tutt’altro. Arrivarono le infamie di aver nascosto in un cassetto le prove dei più gravi omicidi di mafia, arrivò il veleno di un giovane Totò Cuffaro al Maurizio Costanzo show, arrivò la rottura del fronte antimafia che permise alle cosche di rialzare la testa. Oggi, a 16 anni di distanza dalla strage di Capaci, cosa resta del lavoro di Falcone? Secondo Angelino Alfano, Ministro della Giustizia, “Il Consiglio dei ministri ha varato misure di grande impatto nella lotta alla mafia e che ci consentono di completare il disegno di Giovanni Falcone”.

Sulle misure del Governo, onestemente, preferisco non esprimermi. Ma lasciatemi dire che la situazione del parlamento italiano di oggi, rende davvero poco onore a uomini come Falcone. Scusate la retorica, ma un parlamento dove si può dire che un mafioso è un eroe senza essere smentiti, non è un parlamento che rispetta non solo la memoria, ma anche il lavoro, degli Eroi che la mafia l’hanno combattuta in cambio della propria vita.

“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”
Giovanni Falcone

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